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VIOLENZA

Franco FERRI – Psicologo Psicoterapeuta – PSIBA Milano

 

“Mi muovo secondo la mia violenza” scriveva Alda Merini, dando corpo a un sentire non comune e tuttavia assai pervasivo, la cui ‘verità’ è così vera da turbare il pensiero dei benpensanti.

La poetessa milanese ha convissuto tanti anni con la malattia mentale, durante i quali ha avuto una lunga frequentazione degli stati dell’animo più arcaici e più pervasivi che turbavano la sua mente; con la sua sensibilità ha saputo scandagliare la profondità dell’animo umano, lasciando a noi il compito di riflettere sulle verità inquietanti portate alla nostra attenzione nelle sue poesie con tutta la naturalezza e la semplicità di cui era capace.

Per lei l‘evidenza era univoca: la vita è impregnata di violenza! E forse a noi suoi lettori voleva indicare proprio questo: non fatevi l’illusione di potervi sbarazzare con facilità della violenza.

Già, perché quella che noi chiamiamo violenza non è altro che una manifestazione specifica della vita, dell’energia che ci sta sotto, che sostiene la vita; una manifestazione particolare che si configura in atti e in forme problematiche per le quali la mente umana fa fatica a farsene una ragione: quando va bene, si accontenta di una descrizione causale o osservativa (aggressione, stupro, prevaricazione ecc.), e quando va male, rimane sbigottita per l’insensatezza o la sproporzione degli effetti rispetto ai motivi che l’hanno causata. Le intense emozioni suscitate dagli effetti della violenza, possono produrre nella mente di un osservatore una certa agitazione, un marasma confusionale o addirittura a volte uno stupore quasi catatonico.

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Dovrebbe essere facile vedere quanto la vita stessa sia legata indissolubilmente all’energia.

L’energia è l’essenza della vita, anzi, la vita è energia, in potenza o in atto: senza energia disponibile non c’è vita. L’energia stessa è sempre connotata come “energia vitale”. Dunque, nell’energia c’è un doppio aspetto: un aspetto positivo e propulsivo che è intrinseco alla vita e il suo alter ego negativo, distruttivo e catastrofico, la violenza.

La stessa straordinaria varietà delle forme di vita che si sono evolute ed estinte sulla terra ci ripropone l’inesausto dualismo tra creazione e annientamento degli individui e delle specie.

Per inciso, anche la vastità dell’universo ci costringe a fantasticare su ciò che ancora non sappiamo, in una sorta di gioco di avvicinamento o allontanamento rispetto all’incontro con qualche forma di vita proveniente da altri mondi lontani: sarà una potenza vitale amica o una potenza vitale aliena che distruggerà il genere umano? Rimanendo ad ogni buon conto “coi piedi per terra”, vediamo bene come ogni essere vivente da noi conosciuto disponga di un’energia vitale propria che alimenta senza posa. L'individuo, ogni individuo, architetta continuamente strategie di sopravvivenza, strategie chiaramente orientate a indirizzare la dotazione biologica di ogni singolo verso i compiti evolutivi nel ciclo di vita.

Ne derivano alcune semplici riflessioni. Una di queste indugia appunto sul compito universale di ogni essere vivente: raggiungere un soddisfacente padroneggiamento della energia vitale a lui disponibile.

Più nello specifico, nel genere umano il compito si presenta sotto una forma particolare perché l’uomo è dotato di coscienza critica e non può prescindere dal grado più o meno elevato della sua consapevolezza per la responsabilità delle conseguenze nell’uso della sua energia vitale. Sappiamo dalla storia di che cosa è capace il genere umano e proprio perché ogni nefandezza tende ad essere rimossa, occorre sviluppare quella che chiamavamo coscienza critica, perché non tutto quanto l’uomo mette in atto può essere definito come progresso evolutivo.

Può dunque essere importante riflettere su come l’energia possa essere orientata verso mete costruttive, controllando e incanalando aggressività e violenza insite in ogni azione vitale.

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Quale contributo può dare la psicologia alla comprensione e alla realizzazione di questo ideale universale? Forse più di uno, specie se ci fermiamo a guardare le acquisizioni della psicologia dell’infanzia e in particolare alcune riflessioni della psicoanalisi infantile.

Sono proprio queste discipline a sottolineare come ogni neonato fin dal suo primo vagito si cimenta nel gioco del “che fare” delle sue energie vitali. Lo scopo di questo gioco è davvero straordinario: arrivare a farsi un’idea compiuta di sé e del mondo in cui è collocato, riconoscendosi in una relazione sempre più complessa con quest’ultimo.

Si tratta di un processo di apprendimento a feed-back in continua evoluzione, sostenuto dalla crescente consapevolezza della propria energia come proveniente da qualcosa che è il proprio corpo. Un corpo in evoluzione appunto, le cui potenzialità lo porteranno ad essere in un certo arco di tempo un corpo adulto collocato in una realtà più ampia e impegnato ad estendere la sua signoria su di essa.

Naturalmente, questo è un programma evolutivo il cui esito non è scontato e può realizzarsi solo in un ambiente di sostegno sufficientemente adeguato, dove le cure materne e un ambiente benigno possano sopperire all’immaturità del neonato favorendone il compimento.

Com’è facilmente comprensibile i legami di attaccamento fra la madre e il suo bambino sono indispensabili per la naturale sperimentazione di un sé in via di costituzione. E’ di vitale importanza per il bambino imparare ad avere fiducia in una madre-ambiente che verrà incontro ai suoi bisogni con ritmi e modalità relativamente prevedibili. Anche a questo livello nulla è scontato. Di fatto sviluppare la fiducia è un apprendimento disseminato di ostacoli. In effetti quando si è dipendenti da qualcuno che si occupa di noi come succede al cucciolo umano, ogni investimento libidico positivo comporta dei rischi.

Ecco, di questo parliamo, dello stato di bisogno in cui si trova il neonato, dipendente da un ambiente di cui non conosce i contorni e nemmeno le funzioni, un ambiente però in qualche modo riconosciuto come in grado di saturare i suoi bisogni vitali di fame, sete, presenza, contenimento e accudimento.

I bisogni del bambino devono essere riconoscibili e riconosciuti dalla madre-ambiente perché egli possa procedere nell’attaccamento e nella crescita. Tra lui e la madre, quando tutto va bene, si costituisce un vocabolario di segnali e un linguaggio speciale che permette alla coppia di crescere nella relazione, nel legame di fiducia e nella reciproca conoscenza. Qualche volta va male, quando la risposta ai segnali del bambino è errata a seguito di una mancata comprensione da parte della mamma-ambiente, o addirittura la risposta non arriva. Qui il neonato è esposto al sentimento della sua impotenza, con vissuti catastrofici relativi alla rottura dei legami di attaccamento e al terrore abbandonico. La perdita del senso di sé che ne consegue attiva nel neonato una risposta di marasma comportamentale, a volte corredato da una forma di rabbia libera e senza alcun controllo: è un estremo tentativo di richiamare su di sé l’attenzione dell’ambiente.  

Solo ponendoci nei panni del bambino, in qualche modo possiamo afferrare l'essenza di questo drammatico scenario.

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Il mondo psichico del bambino, ogni madre lo sa, è fatto di bisogni.

E anche di desideri. Le madri sanno anche indovinare i desideri del loro bambino. Per le nostre riflessioni conviene non perdere di vista come i bisogni e i desideri non siano proprio la stessa cosa. Spesso non sono distinguibili, nè dal neonato né da chi si occupa di lui. Di certo il suo mondo è a tinte forti: o è in uno stato di placido benessere o sta male in senso cosmico; o nutre fiducia nell’ambiente di sostegno, o è esposto alle angosce abbandoniche; o sta per così dire in paradiso, o sperimenta il terrore dell’inferno: non può ancora distinguere le sfumature e le differenze in una continuità del senso di sè.

Per questo, nella psiche del bambino, vige una sorta di consustanzialità fra quello che noi chiameremmo diritto al sollievo da un bisogno (per esempio quello di essere nutrito, accudito ecc.) e il desiderio di qualcosa connotato col piacere della beatitudine (per esempio del capezzolo pieno di buon latte caldo o di una madre a disposizione). Nella sua mente, il desiderio si trasforma immediatamente nel vissuto di un diritto senza se e senza ma: si tratta di una forma della megalomania onnipotente dei bambini, che non tollera o mal sopporta la delusione e la dilazione del soddisfacimento del desiderio.

Nel programma evolutivo di ogni bambino, è prevista però prima o poi la frustrazione, vale a dire la non coincidenza tra il materializzarsi del desiderio e la sua realizzazione (delusione), o il verificarsi di un ritardo nel sollievo dal bisogno, con la sofferenza che ciò comporta (come si sa, non esistono le mamme perfette e, se esistessero, sarebbero probabilmente pericolose per loro bambino).

Non è una sofferenza inutile, senza senso; anzi è l’esperienza della realtà che irrompe nel mondo fantasmatico del bambino e lo costringe a distinguere l’immaginazione dalla realtà stessa, a farsi un’idea della realtà, anzi, a sviluppare un suo interesse per la realtà in quanto tale. Imparare a fare i conti con la realtà è una capacità importante e la  costruzione di una sua immagine utilizzabile è un passaggio decisivo per la crescita.

Per comunicare con l’ambiente il bambino ha a disposizione pochi strumenti (il pianto, il lamento, il grido, l’agitazione, i movimenti scomposti) ed egli li usa ad oltranza fino a ottenere una risposta che possa aiutarlo a recuperare lo stato di quiete e di benessere. Quando la risposta non arriva, la frustrazione fa sentire i suoi morsi e se supera la sua capacità di tollerare l’attesa, questa attività motoria viene invasa da tutta una serie di fantasie aggressive nei confronti della mamma-ambiente assente o inadeguata.

L’aggressività e la distruttività nei confronti dell’oggetto relazionale primario deludente e frustrante non è priva di conseguenze, perché è accompagnata dall’angoscia di una ritorsione altrettanto distruttiva, che sommergerà il successivo processo di riavvicinamento con la madre.

Sappiamo bene quanto potere ha sulla madre il pianto del suo bambino e quali effetti ha nella sua mente il marasma dell’inconsolabilità prolungata.

Fortunatamente sono casi rari: di solito una madre, come si dice, “sufficientemente buona" sarà in grado di rielaborare col figlio questi fantasmi, bonificando la mente del bambino dai sensi di colpa per averla attaccata e ferita: la sua presenza sorridente e calma dimostrerà al figlio di essere sopravvissuta indenne ai suoi attacchi.

 

A volte però il "programma evolutivo" di riconoscimento della realtà rimane incompiuto o distorto, mentre il “programma evolutivo” della crescita corporea prosegue per conto suo senza intoppi.

L’onnipotenza del desiderio però può fare un'improvvisa ricomparsa, così come la sofferenza angosciosa della frustrazione può ripresentarsi in tutta la sua virulenza mentre l’angoscia abbandonica allaga la mente. Questo può succedere anche quando magari il corpo è cresciuto e dispone di energie proporzionate, un corpo maturo in grado di mettere in atto quello che la realizzazione onnipotente del desiderio pretende.

Ecco: l’occhio attento può riconoscere in controluce nella violenza apparentemente senza senso di fatti della nostra quotidianità il riemergere di un funzionamento psicologico immaturo che non tollera alcuna frustrazione, riverberato dal desiderio infantile di avere a propria completa e immediata disposizione un oggetto relazionale completamente oblativo: il desiderio di un piccolo tiranno rivestito della pretesa onnipotente di un dominio assoluto sull’oggetto relazionale.

Solo che qui, a distanza magari di anni, il tiranno non è più un bambino a cui si perdona tutto: nel frattempo è cresciuto…..., e gli esiti dei suoi comportamenti potrebbero non essere esenti da responsabilità appunto adulte.

Questo può succedere perché l'oggetto relazionale, per qualche ragione a volte oscura, non viene riconosciuto come persona intera ma come protesi della megalomania infantile.

 

Concludendo, potremmo sintetizzare che rescere comporta il non sempre immediato riconoscimento dell'oggetto relazionale intero e la necessità di coltivare l'interesse per l’altra persona vista come fonte di scambio e non come oggetto a disposizione.

 

franco.ferri49@yahoo.it

335 5342663

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