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LORENZO E L’OMBRA

Franco Ferri – Psicologo Psicoterapeuta

 

- Dal mondo chiuso della psicosi si può uscire? Ufficialmente no, ma se tu vuoi possiamo prendercene cura insieme e chissà… qualche porta prima o poi si aprirà. -

 

“In che cosa potrei esserle utile?”

“Dottore, non mi sento capito, non riesco più a capirmi.” Pausa carica di attesa. “Non capisco più cosa mi sta succedendo.” Lunga pausa.

In questa atmosfera rarefatta, ho il tempo di ripassare i miei pensieri.

Come in sogno, rivedo il paziente in controluce sulle scale: sulla porta d’ingresso, prima di scomparire come un’ombra, c’era una silenziosa figura femminile…

Forse una crisi coniugale, penso.

Poi affiorano altri pensieri incalzati dalle parole: “Non capisco quello che stanno dicendo gli altri…” Lungo silenzio senza respiro. “Non capisco più cosa mi viene detto…”

Forse mi sta dicendo che sta molto male e non trova le parole per esprimere il suo malessere. Forse qualcuno, l’ombra sulla porta, la buona volontà di parlargli, di dargli una mano ce l’ha messa. Sarà stata sentita come lontana, estranea, magari pericolosa? Lascio andare i miei pensieri. Fino a quando prende corpo l’immagine di un bambino solo e triste, trascurato dalla sua mamma. Senza speranza di riuscire a catturare le sue attenzioni. E’ però un mio pensiero che tengo in disparte.

Lorenzo mi mostra un volto tormentato, uno sguardo nel quale si indovinano fantasmi persecutori. L’accusa: essere il responsabile della sua solitudine. Nei tratti si intravedono i segni dei sensi colpa che disegnano rughe profonde nella sua carne.

Davanti a me c’è una persona di mezza età, dimessa, un po’ ingobbita, impacciata, con un tono della voce assai lugubre e depresso. Le parole sembrano essere messe in fila a fatica: “E’ fin dai tempi della mia adolescenza che vivo un enorme disagio: in questi ultimi anni ho avuto parecchie crisi di panico e ho sperimentato diverse crisi dissociative”. Le parole escono lentamente, il tempo sembra sospeso. Esse prendono posto una accanto all’altra con esasperazione, sono pesanti, la fatica è palpabile e solo alla fine si compongono in un senso compiuto: una conquista!

Questa greve coscienza della sua vita viene messa sul tavolo quasi senza pudore: non c’è timore per la reazione dell’interlocutore; forse c’è rassegnazione; forse c’è anche amarezza per un dolore alieno e amico nello stesso tempo, diventato tale dopo una lunga convivenza; forse c’è anche sconcerto per il vedersi qui in una situazione nella quale si è trovato perché qualcuno lo ha infilato senza una sua completa convinzione (l’ombra?).

Qualcosa d’altro però è in sospeso nell’aria: una segreta speranza, una attesa. Pare un sogno solo accennato, quello di dare corpo a un desiderio informe di ottenere da me, o da quello che io rappresento per lui, una opportunità, una chance di cambiamento.

“La mia famiglia non esiste, sebbene io viva ancora in casa con padre e madre”. Dai lunghi silenzi fra una parola e l’altra traspira un disagio relazionale e il rinvio a un clima familiare anaffettivo, appunto, silenzioso, scandito dai rituali quotidiani che probabilmente si ripetono secondo una sequenza prevedibile e rigida da tempo immemore.

Mi sembra però una precisazione importante: il dolore, il dolore psichico intendo, è qui, è in un contesto familiare dove le cose che succedono non vanno “parlate” ma vanno capite a priori, senza che la parola possa essere udita.

La parola si sa, è pericolosa: ne uccide più la lingua che la spada, diceva un vecchio adagio.

Ecco il possibile dolore: la parola ferisce perché può essere più tagliente di una lama, può essere più velenosa del pungiglione di uno scorpione e avvolgente più delle spire di un serpente.

Mia nonna buonanima, mi spiazzava sempre quando ero un bambino. Per ogni situazione aveva una perla di saggezza da elargirmi anche senza bisogno di uno sguardo di ricompensa, di un riconoscimento; il suo dono era gratuito: “Il bel tacer non fu mai scritto” mi disse una volta, e per molto tempo rimasi in sospeso con l’interrogativo su quello che aveva voluto dirmi. 

Qui però non c’è traccia di una qualsivoglia bellezza: l’esitazione del pensiero, scandita da un vuoto tra una parola e l’altra, tra una frase e l’altra, lascia solo intuire un non detto, leggibile come nascondimento angoscioso di una fragilità che, se esposta alla luce della parola, appassirebbe inesorabilmente.

Già: la luce. Cosa succede quando la luce è spenta?

“Non ho sogni da raccontare. Però di notte ho paura e mi sveglio con la tachicardia: mi hanno detto che soffro di sonnambulismo…”. Infatti quello a cui accenna, più che un sogno, un desiderio, ha tutta l’aria di essere un incubo irrappresentabile, pervaso da un’entità estranea senza forma che lo seduce…

Anche qui il vuoto lasciato fra le parole rimanda alle parole vuote. “Le capita di fare dei pensieri su questa cosa?” “Non so, mi spiazza”. Poi aggiunge: “Tanta paura”.

Mi sbaglio: il vuoto è pieno di paura!

Se non fosse che i segni della vita vissuta sul suo volto sono evidenti, direi di trovarmi davanti un bambino di 4 o 5 anni: è lì che si è fermato il tempo? Che spessore avrà l’incrostazione di un incubo protratto per così tanto tempo? Ai bambini bastano poche parole, l’abbraccio della madre e il suo sorriso per sottrarli agli incubi e riportarli tra noi. Qui il brivido di una distanza siderale da un qualsiasi contatto umano si fa palpabile. Anzi, più che brivido, l’inquietudine: "Paura di quello che ho sepolto", dice. Il rimosso è ancora vivo: non è più nelle possibilità di una consapevolezza, ma ritorna di notte e agisce di giorno; come il piombo appesantisce ogni pensiero e avvelena il sangue ammorbando l’ambiente in cui dovrebbe vibrare il desiderio di una vita vissuta in prima persona: l’inconscio non deve essere dissepolto, non deve incontrare la parola, perché libererebbe chissà quale valanga inarrestabile (di rabbia distruttiva?).

 “Davanti alle scelte ho lasciato fare agli altri, io ho abbandonato”.

Che amaro sapore ha la rinuncia! penso. Gli avrà rovinato lo stomaco… “E’ dalle scuole superiori che soffro di vomito ricorrente, tanto che ora mi hanno diagnosticato una gastroesofagite cronica da reflusso”.

Gli chiedo se almeno l’infanzia è stata migliore: “Non ho ricordi. Quello che so è perché l’ho visto sulle foto, ma io non saprei dire. Mi ricordo ero agitatissimo e c’erano sempre le luci accese in casa”. Ho l’impressione di un rigurgito di vitalità; temo possa agitarsi anche qui.  Del resto, quelle luci accese non davano scampo: si era sempre sotto l’occhio vigile, e severo, di qualcuno. In mancanza di quello sguardo chissà cosa poteva succedere, perché qualcosa era già successo… e da allora bisognava sempre essere pronti a giustificarsi coi genitori, in una sorta di carcere di massima sicurezza. Con regole ad hoc: tutte le porte dovevano essere sempre aperte, quelle del bagno soprattutto: “Fischiare, non parlare!” sibila misteriosamente.

Nella realtà quotidiana di quella casa dove non esistono spazi di tipo privato, aleggia un fantasma onnipresente e senza confini: l’immaginario quotidiano, ripetitivo, soffocante e claustrofobico è condizionato da una figura materna, ma un altro fantasma, quello del padre fragile e malato da sempre, configura sullo sfondo un possibile scenario catastrofico per il quale è previsto un controllo continuo e asfissiante di tipo preventivo. Si “sente” il non detto: il rammarico per la rinuncia a una vita sociale propria, il pudore per le sue parti bisognose esposte alla vergogna della scoperta, e contemporaneamente, il trasalimento per un desiderio nascosto: rompere il muro del suono col suo urlo mentale “Aiutatemiii!!!”  e costringere i sordi e insensibili passanti a soccorrerlo.

Un sussulto: chi era per lui quella figura che gli stava di fianco quando ha suonato il campanello?

“Ha scelto lei di venire qui?” gli chiedo, consapevole dell’importanza di una valutazione condivisa sul procedere o fermarci.

"Mi sono mosso io. Passo titanico!", scandisce. L’ombra che lo ha accompagnato sulla porta si configura come amica.

“E che cosa si aspetta da me?”

"Non lo so", silenzio. “Mi logora, ho dei buchi".

I buchi sono colmi di angoscia, come i vuoti sono pieni di paura!

Sono una espressione verbale ma rimandano a un indicibile, e questo indicibile angoscioso potrebbe tracimare inondando tutto il campo della coscienza.

Un passo titanico però era stato fatto, e questo spazzava via ogni dubbio.

La fiducia di poter essere aiutato da me a presidiare il territorio di quel che rimaneva della sua consapevolezza era tutto racchiuso in quel passo titanico. Potevamo incamminarci lungo questo sconosciuto sentiero.

“Sarò qui per Lei ogni giovedì a quest’ora, … per ora. Poi valuteremo insieme come sente di riuscire a lavorare con me e decideremo il da farsi. L’aspetterò volentieri”. L’alleanza di lavoro non è solo la premessa necessaria e indispensabile per un percorso terapeutico assai impegnativo con molti pazienti, ma in alcuni casi è terapeutica essa stessa, come si prospetta in Lorenzo.

“Grazie, Dottore.”

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